Intervista a Chiara Montanari

Prima ingegnere e poi ricercatrice ed esploratrice. Una professione al maschile che invece ben si sposa con la piombinese Chiara Montanari, classe ‘74, nel dicembre 2014 insignita dell’Ambrogino d’oro, civica benemerenza del Comune di Milano, per l’impegno nell’innovazione e la ricerca. E’ stata la prima donna, per ben due volte, a guidare una spedizione italo-francese in Antartide ed è responsabile gestionale del Dipartimento di matematica del Politecnico di Milano. E’ appena ripartita per una nuova missione per una base di ricerca belga, sulla costa dalla parte del Sud africa, dopo aver portato in giro per l’Italia il suo primo libro “Cronache dai ghiacci, 90 giorni in Antartide”. “Sono una persona molto curiosa – si racconta – che ama le sfide, la natura e le mille possibilità che ci offre la vita. Ho avuto l’occasione di vivere e lavorare in Antartide ed è stata una folgorazione. Qui c’è una natura allo stato puro, un forte senso di sfida e la possibilità di partecipare ad affascinanti imprese scientifiche”.

Com’è nata la sua passione? C’era già da piccola? L’istinto di esplorare è una caratteristica che sento appartenermi molto. La passione per il viaggio si è insinuata in me fin da piccolissima, visto che ho avuto la fortuna di avere genitori che viaggiavano e ci portavano con loro. Però non avrei mai immaginato di avere la grande fortuna di arrivare fino in Antartide. L’incontro con il Polo è giunto all’università: mi sono laureata in ingegneria civile a Pisa con una tesi di progettazione di un impianto di riscaldamento, ad alta efficienza energetica, che simulava le condizioni di una base in Antartide. Era solo una simulazione, ma il progetto piacque all’allora direttore del Programma Italiano in Antartide.

L’Ing. Mario Zucchelli a cui, in seguito, hanno intitolato la base di ricerca italiana sulla costa) e decise di realizzarlo. Così mi ritrovai a lavorare nel gruppo di ingegneri che si occupava dell’organizzazioni e della logistica delle missioni scientifiche in Antartide.

Prima ingegnere e poi ricercatrice in Antartide, le due cose si sono intrecciate? Dopo un paio di anni di lavoro come progettista, mi proposero di occuparmi delle spedizioni scientifiche da un altro punto di vista: divenni l’interfaccia tra gli ingegneri della logistica e i ricercatori che dovevano portare complicate strumentazioni di ricerca sperimentali in Antartide. Il mio lavoro era girare l’Italia o l’Europa per incontrare diversi gruppi di ricerca, capire i loro progetti e conoscere la loro strumentazione, poi dovevo “tradurre” tecnicamente agli ingegneri della logistica tutte le loro necessità. Chiaramente dovevo seguire anche la traduzione inversa, dagli ingegneri ai ricercatori, poiché la base era Concordia, sul Plateau Antartico, a 4000 m di altitudine con temperature che arrivano a – 50°C in estate e – 80°C in inverno. Quindi era necessario spiegare ai ricercatori le esigenze e i limiti tecnici che questo ambiente ci impone. Ho lavorato così per i primi 7 anni della carriera, è stata un’esperienza entusiasmante, una “gavetta” straordinaria: le sfide tecniche erano moltissime e i progetti di ricerca da seguire affascinanti e variegati. A Concordia si fanno ricerche climatiche attraverso trivellazioni nel ghiaccio, per estrarre le carote di neve; si installano strumenti e si lanciano palloni aerostatici per i campionamenti atmosferici; si installano telescopi per cercare pianeti extrasolari, per fare osservazioni all’infrarosso o per effettuare misure come la radiazione di fondo dell’universo; si installano antenne per misurare i campi magnetici e le interazioni tra la terra e il sole; si installano sismografi e si organizzano trasvolate aeree con strumenti radar per studiare i movimenti della calotta polare e i laghi subglaciali; si raccolgono meteoriti e l’agenzia Spaziale Europea studia le dinamiche dei nostri team e l’adattamento umano per le prossime spedizioni su Marte. Così a poco a poco ho cominciato ad interessarmi al metodo scientifico, che è l’elemento comune delle varie ricerche nelle discipline scientifiche e a spostare progressivamente i miei interessi dall’ingegneria alla filosofia della scienza e, in particolare, alla teoria della complessità. Più tardi poi, quando mi hanno chiesto di fare il capospedizione, ho approfondito i miei studi, anche alla ricerca di strumenti e competenze che mi permettessero di gestire tutto al meglio. Alla fine, il mio profilo è ibrido: un po’ ingegnere e un po’ ricercatore e, come coordinatore di team, trovo la cosa molto utile, perché permette di muoversi con agilità tra diverse discipline e diverse culture. Tra l’altro, credo che l’ibridazione dei profili sia una delle chiavi più interessanti per rispondere alle sfide che il mondo contemporaneo ci pone.

Non deve essere stata una scelta di vita facile… soprattutto per una donna… La vita privata per esempio? E’ stata una scelta molto naturale. Spesso mi chiedono se come donna ho dovuto rinunciare a qualcosa… e io non so mai cosa rispondere, perché ogni scelta è un bivio, un insieme di bivi crea una strada e vale in qualsiasi vita. E’ molto importante avere la capacità di apprezzare e godersi quello che la vita ci offre… La vita privata non ne ha risentito particolarmente perché la spedizione estiva dura soltanto 3 mesi e ho scelto di non partecipare tutti gli anni. Fino ad oggi ne ho seguite 4, spalmate nell’arco di dieci anni hanno un costo emotivo “sostenibile” nella vita privata. Come donna non è stato tanto difficile, è chiaro che all’inizio c’è stata qualche resistenza: sono stata la prima italiana a guidare una spedizione in Antartide, ma per fortuna là conta più quello che sai fare piuttosto che il tuo genere.

Lasciare la famiglia, Piombino e gli affetti… Lasciare gli affetti è una delle cose più difficili, soprattutto se in spedizione ci sono situazioni critiche o problemi (e questo accade spesso, visto che l’imprevisto è sempre in agguato in Antartide). Ma è anche vero che l’esperienza della vita in una base di ricerca è talmente straordinaria che i malumori passano in fretta: c’è sempre uno spettacolo naturale che ti travolge oppure un compagno di spedizione che si occupa di riportare il tuo morale al buonumore.

Ritorna ogni tanto a Piombino? Certo che si, i miei genitori e mia sorella con la sua famiglia vi abitano. E poi non dimentichiamoci che chi è nato al mare non può stare a lungo senza tornare di tanto in tanto alle sue radici.

E’ già volata in Antartide per una nuova missione, ce ne parla? Sono partita il novembre per una base di ricerca belga, si trova sulla costa, dalla parte del Sud Africa. Una nuova esperienza sotto vari aspetti. E’ una zona dell’Antartide nuova, è vicino alla costa, quindi avrò a che fare con ricerche diverse, e paesaggi con animali e iceberg anche il team è nuovo, composto da tecnici, ricercatori e militari che saranno di supporto alle operazioni logistiche. Inoltre, la base, Princess Elisabeth, è molto bella, ed è il primo “zero energy building” dell’Antartide, cioè una base che produce tutta l’energia di cui ha bisogno utilizzando fonti rinnovabili (solare ed eolico).Il mio lavoro come capospedizione sarà quello di coordinare tutte le operazioni e ho anche un piccolo progetto di ricerca per studiare la base e le possibili migliorie che si possono fare sia a livello di organizzazione che di gestione energetica.

E nel passato, quando si è sentita più realizzata? In generale mi reputo molto fortunata perché ho avuto molte occasioni per realizzare i progetti che avevo in mente. Certo ci sono stati momenti difficili e anche di sconforto, perché se ti capita di lavorare a un progetto, a cui tieni molto, c’è sempre un’occasione in cui arriva un ostacolo e hai paura di non farcela, oppure devi incassare una sconfitta, ma alla fine è un training anche questo. Forse uno dei momenti più emozionanti è stato quando mi hanno consegnato l’Ambrogino d’oro, soprattutto perché mi ha commossa vedere la reazione dei miei genitori.

Qual’è l’esperienza che porta più nel cuore? Ogni spedizione è una grande avventura e ogni contatto con l’Antartide è una trasformazione. Quello che porto nel cuore è l’effetto di questa trasformazione: la resilienza, che è la capacità di evolvere insieme alle situazioni. In Antartide è necessario sviluppare resilienza, perché tutto cambia continuamente e spesso in maniera repentina e imprevedibile. Piano piano, con il tempo, mi sono accorta che quest’attitudine mi rimaneva addosso anche al rientro in Europa. La resilienza è una delle caratteristiche principali dei sistemi naturali e credo che sia un attitudine molto interessante da sviluppare e mantenere nella vita più in generale.

Quella che non rifarebbe? Se potessi evitare qualche situazione di emergenza in cui mi sono trovata, forse lo farei. In quei momenti siamo consapevoli che ogni decisione che prendiamo può avere un esito drammatico, così sono cariche di tensione. Ricordo per esempio un recupero di ricercatori rimasti in panne a 25 km dalla base, era la mia prima emergenza come capospedizione e le ore in sala operativa a coordinare il recupero sono state molto pesanti. Però, da quell’esperienza ho capito alcune cose su di me e sulla mia capacità di rimanere lucida in situazioni critiche.

Come si vive in Antartide? La base si trova sul plateau Antartico, in un luogo molto isolato, a 1200 km dalla costa e una quota di 3270 m, ma per effetto della rarefazione dell’aria l’altitudine percepita è quella dei 4000 m. Le temperature in estate si aggirano sui – 50°C, ma se c’è vento, quelle percepite possono arrivare intorno ai – 60°C o anche meno. Il senso di confinamento è forte. Vivi in un mondo dove per affrontare un problema puoi contare solo sulle poche risorse a disposizione in quel momento (le nostre basi di appoggio sono sulla costa, il che significa 5 h di volo, ma solo se il tempo lo permette). Il fisico è fortemente messo alla prova, ma gradualmente si adatta. I disagi emotivi invece seguono il percorso opposto e si acuiscono con il tempo. La cosa peggiore per me sono gli spazi confinati e la mancanza di privacy. Per fortuna in estate è possibile uscire. Lo spettacolo della distesa di ghiaccio che ti circonda, immobile, immacolata e inodore, è una vastità che ti sovrasta e che porta via tutti i pensieri, malumori inclusi.

Come ci si abitua a quella realtà ? A dire la verità, le maggiori difficoltà da affrontare, soprattutto all’inizio, hanno a che fare con il cambio della prospettiva, delle aspettative e del nostro atteggiamento. Ti trovi davanti paesaggi alieni, dove le regole a cui sei abituato non valgono più e tutti gli strumenti su cui di solito puoi contare devono essere ripensati. Così, come l’esperienza del respiro che si congela quasi all’istante o del vivere in un luogo dove per ogni soluzione che trovi si aprono sempre ventagli di nuovi problemi: sei costretto a cambiare atteggiamento. Impari a riposizionare le tue aspettative di controllo e, soprattutto, a fare i conti con le situazioni nel modo in cui si presentano. In sintesi si acuisce la capacità di agire in modo situazionale. Secondo me sia i nostri corpi che le nostre menti sono molto più flessibili di quanto tendiamo ad aspettarci.

E’ mai stata scoraggiata al punto di voler tornare a casa? Si, certo, soprattutto la prima volta. All’inizio è una specie di shock, poi ci si abitua e si impara molto, anzi la cosa sorprendente per me è stata proprio la velocità con cui si impara in certe situazioni, basta avere un po’ di coraggio per affrontarle.

Qual è l’esperienza più strana che ha vissuto? Guardare negli occhi una foca. Avevo accompagnato un gruppo di ricercatori a fare analisi sul Pack. Abbiamo scoperchiato uno dei fori che usano per immergere le loro apparecchiature ed è uscita una foca. Ascoltare il suo respiro e guardarla negli occhi è stata un’esperienza bellissima.

Come sono i rapporti sociali? Ho dato molto spazio ai rapporti umani nel mio libro, perché in una base nel bel mezzo di un deserto di ghiaccio, dove una sessantina di persone (di cui solo 6 donne) convivono ammucchiate in piccoli spazi, è inevitabile che si creino dinamiche molto particolari. C’è per esempio Il FRA, ovvero il Fattore di Rivalutazione Antartico, quella specie di legge della fisica per cui in Antartide non esisterebbero donne brutte, ma tutto dipende dal periodo di tempo che si è passato in missione! Ma scherzi a parte, la base è un piccolo mondo e il nostro gruppo è interdipendente, si creano legami molto forti, soprattutto perché l’ambiente ci sollecita con la sua incertezza. Sono inevitabili le tensioni e i conflitti. Uno dei compiti del capospedizione è quello di risolverli e per gestirli è necessario avere tanta pace interiore! In un ambiente così pieno di rischi, dove un banale disaccordo può mettere in pericolo tutto il gruppo, è necessario mantenere i nervi saldi. In quel ruolo il mio compito era creare quell’atmosfera di rispetto, dialogo e fiducia che è fondamentale alla collaborazione del gruppo e al successo della missione. Come scrivo nel libro, fare delle scelte in un ambiente dove domina l’incertezza assomiglia molto a quello che fanno i musicisti di un quartetto jazz: ciascuno aggiunge la propria nota al momento giusto sulla base dello “swing” che riconosce nel pezzo. Ci vuole molta abilità per agire con precisione e armonia al ritmo di una situazione in continuo mutamento.

Un confronto con professionisti da tutto il mondo? La base è gestita in maniera congiunta dall’Italia e dalla Francia, quindi il team è internazionale, i ricercatori arrivano da tutto il mondo. L’atmosfera è “melting pot”, un ambiente multicuturale, multidisciplinare. Le nostre provenienze sociali e culturali sono le più disparate ed è veramente un luogo particolare da questo punto di vista. Nel 2010, il nostro gruppo ha accolto la visita del principe Alberto di Monaco. In generale la nostra appartenenza quando siamo la non è più legata alla nazione di provenienza, ma si potrebbe dire che quella che sentiamo è un’appartenenza Antartica.

Ci parla del libro? Racconta la mia ultima spedizione a Concordia, che è stata piena di imprevisti e avventure. Sicuramente tutta l’emergenza che abbiamo vissuto per la mancanza di carburante, causata dalle condizioni anomale del pack sulla costa, ci ha dato un monito inequivocabile. Ma, a dire la verità, lo spettacolo della distesa di ghiaccio che si perde all’orizzonte e della volta celeste che ci avvolge è sempre sconcertante e, ogni volta, basta questa visione per ricordarmi che siamo solo dei fragili ospiti in un universo molto più vasto. Molte persone che lo hanno letto mi scrivono attraverso il sito per ringraziarmi di averle portate in Antartide, il mio obiettivo era proprio quello di condividere questa esperienza ed il io amore per quei luoghi.

Come vedono gli italiani laggiù? Li considerano persone capaci, del resto io sono stata chiamata dai francesi come loro rappresentante in capo nell’ultima spedizione e in questa dal governo belga…

Qual è la sua giornata tipo? Non c’è, ci sono troppi imprevisti. L’unica costante è la sveglia la mattina alle 6 così ho un’ora di tempo per praticare un po’ di kung fu, per tenermi in forma, concentrarmi e soprattutto avere un po’ di privacy.

Cosa mangia? Il cibo è un elemento importante come supporto psicologico. In ogni missione ci sono i cuochi che si prendono cura di noi. Le materie prime sono congelate, ma i pasti molto curati. Inoltre il bello di stare a – 50°C è che il metabolismo deve accelerare per mantenere la temperatura corporea, quindi si mangia e non si ingrassa, anzi, si dimagrisce.

Quando torna qua come vede l’Italia e Piombino rispetto all’altra realtà che vive? L’italia è il paese in cui sono nata e anche il paese in cui ho scelto di ritornare, perché ad un certo punto, dopo due anni vissuti a Londra avevo quasi deciso di trasferirmi là. Poi ho pensato che, per quanto questo paese sia pieno di contraddizioni e difficoltà, ha qualcosa di speciale per cui vale la pena di lottare. Così ho deciso di rimanere e soprattutto di impegnarmi in progetti che tentassero di migliorarlo. Per quanto riguarda Piombino da una parte vivo con molta preoccupazione la crisi che sta attraversando, dall’altra penso che sia una grande opportunità per permetterle di cambiare direzione. E’ un posto meraviglioso che dovrebbe puntare di più al turismo ecosostenibile, alla qualità dell’esperienza enogastronomica che può offrire e all’arte. Certo, prima si dovrebbero creare dei sistemi capaci di gestire questo percorso di valorizzazione delle risorse naturali che abbiamo, so che non è facile, ma sicuramente è fattibile, basta avere delle idee e un po’ di coraggio e determinazione per realizzarle. Io, per esempio, parteciperei con entusiasmo ad uno di questi progetti.

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