Il ricordo del re degli enologi
Un “classicista” del vino, un “poeta delle vigne” nello spirito e nella tecnica. Tanto aveva letto della cultura antica di come, prima di lui, dai greci ai latini, quando ancora non esistevano i sistemi moderni, ci si adoperava nella coltivazione e produzione del vino. Giacomo Tachis, un piemontese che ha fatto cose straordinarie, in fatto di vino, scegliendo la Toscana. La Toscana dei marchesi Antinori, i più storici produttori, a fianco dei quali ha lavorato per oltre trent’anni (a partire dagli anni ’60, poi divenendo direttore delle Cantine) e anche del marchese Mario Incisa della Rocchetta, conterraneo, colui che ha consegnato la striscia di terra bolgherese alle cronache mondiali, intuendo che fosse zona di grande vocazione vitivinicola, ove tentare un’esperienza “tutta bordolese” che poi si è dimostrata più che vincente. Un enologo, GiacomoTachis, che ha condotto con sapienza e determinazione tre dei grandi vini italiani, ma non solo, nel mercato mondiale: Tignanello, Solaia e Sassicaia.
Era un puro, definito “il re degli enologi” e il fautore del Rinascimento del vino italiano, se n’è andato il 6 febbraio scorso, a 82 anni, dopo una lunga malattia, nella sua casa a San Casciano Val di Pesa. La sua scomparsa ha destato commozione anche nel bolgherese, territorio a cui Tachis è stato molto legato e dove ha lavorato con i più grandi ed importanti produttori. Era nato a Poirino (Torino) e si era formato alla scuola di Enologia di Alba (Cuneo). Un amore incondizionato e sincero quello che lo ha sempre legato alla Toscana che ha poi scelto come luogo d’adozione. Con lui c’è stato un cambiamento nel fare e percepire il vino: ha creato vini assoluti non solo per le caratteristiche organiche ma anche per il mercato a cui, con le sue capacità, ha contribuito, dando un grosso impulso all’economia del settore. “Dopo secoli di viticoltura orientata alla quantità – lo ricorda il marchese Piero Antinori – è stato il primo a capire il grande potenziale qualitativo della Toscana e dimostrarlo nei fatti. Ha contribuito a valorizzare il prodotto vino, prima considerato un prodotto “povero”, creando maggiore prosperità, ricchezza e occupazione nelle nostre terre, altrimenti destinate allo spopolamento”. Trentadue anni di lavoro fianco a fianco. “Sono stati anni di grandi cambiamenti nel nostro settore – continua Antinori – e proprio per questo molto intensi e stimolanti perché sentivamo di essere parte di uno storico rinnovamento. Senza il contributo decisivo di Giacomo Tachis tutto questo, molto probabilmente, non sarebbe potuto accadere”. Puro nella vita e nel lavoro, soprattutto in fatto di vini, ha sempre rigettato l’utilizzo di formule chimiche in cantina, una tendenza tutta moderna, e raccomandava di stare “attenti alla genetica perché la natura si ribella”.
“Un grande guardiano della qualità del vino – lo ricorda il marchese Nicolò Incisa della Rocchetta – a lui mi legava un profondo rapporto di amicizia oltre che professionale. Visto che in questi giorni anche l’Accademia della Crusca si è espressa nel limitare l’utilizzo dei termini inglesi rispetto a quelli italiani, rammento che lui non ha mai voluto essere etichettato come “wine maker”, un esempio. “Oltre ai vini ha saputo valorizzare dei territori, seguendone la tendenza naturale, senza stravolgimenti, non solo in Toscana ma anche in Sicilia e Sardegna. Tachis ha sposato appieno lo spirito di mio padre, è arrivato dopo vent’anni in cui già producevamo vino, nel ’68, ma solo per una consumazione in ambito familiare. Poi la decisione di commercializzarlo e affidarci, per questo nuovo progetto, agli Antinori, presso la cui azienda Tachis già lavorava. Con lui abbiamo avuto la garanzia professionale che il vino poteva essere trasportato e distribuito nel mondo pur mantenendo le caratteristiche fondanti”. Giacomo Tachis è rimasto alla Tenuta San Guido fino al 2007, nel 2010 poi, per problemi di salute, il ritiro definitivo dalle scene. “Nei lunghi anni in cui abbiamo collaborato – conclude Incisa – non ci sono mai state annate negative”. Chissà come avrebbe voluto essere ricordato? “Non so se lui se ne è mai reso conto appieno – conclude Antinori – ma certamente, nella sua modestia, avrebbe forse preferito essere ricordato come lui, scherzosamente amava definirsi: un “mescolavino”. Era un ottimista perché credeva nel vino e ne era innamorato così come della sua storia millenaria”. (RIPRODUZIONE RISERVATA)
L’INTERVISTA – PIERO ANTINORI
Piero Antinori ripercorre le tappe più significative a fianco del grande enologo con cui ha collaborato oltre trent’anni.
Come vi siete incontrati e scelti?
Quando ho iniziato ad occuparmi dell’azienda e a frequentare le nostre cantine, Giacomo Tachis era già da noi in pianta stabile. Lo aveva assunto qualche anno prima mio padre su segnalazione del Prof. Pier Giovanni Garoglio.
I primi assaggi… Quella che considerava la prima vera annata… Il Chianti Classico, ci trovammo subito d’accordo sulla necessità di fare qualcosa per migliorare un prodotto che a metà degli anni ’60 stava decadendo, con grave pericolo per la reputazione e per l’economia del territorio. La prima annata frutto della nostra collaborazione è stata il 1967 che, anche grazie all’andamento stagionale favorevole, fu un grande successo.
E oggi, cosa pensava di questo territorio, di Bolgheri e dei suoi cambiamenti …
Giacomo Tachis è sempre stato, fin dall’inizio, innamorato del territorio del Chianti Classico. La scoperta di Bolgheri è di qualche anno più tardi, agli inizi degli anni ’70, quando gli chiedemmo di interessarsi al “Sassicaia”.
Lui ha dato un grande impulso alla crescita del vino in Toscana, senza di lui probabilmente il vino non sarebbe arrivato ai livelli straordinari…
Fin dall’inizio della sua esperienza toscana intuì che le nostre terre avevano uno straordinario potenziale qualitativo e tutta la sua vita l’ha dedicata a far sì che questo potenziale si traducesse in realtà. Personalmente penso che questo sogno si sia, grazie a lui, realizzato.
Tra voi c’era un forte legame… Come lo può descrivere? Come siete cresciuti assieme in questo mondo?
Oltre 30 anni di lavoro quotidiano fianco a fianco hanno prodotto un legame non solo “professionale”, ma anche umano nato in momenti facili, ma anche difficili, con la consapevolezza di essere parte del periodo più importante e positivo per il vino italiano.
Ricorda il suo maggior pregio e il difetto più grande?
Il suo grande talento di tecnico e di degustatore e lo sconfinato amore per il prodotto “vino”. Il suo più grande difetto era il modo con cui guidava l’automobile, fatto di accelerate e di frenate improvvise, senza una vera ragione. Stargli accanto era una vera sofferenza…
Eravate d’accordo su come muoversi in rapporto al vino o spesso in disaccordo?
Non ricordo una sola volta in cui non ci siamo trovati d’accordo su questioni fondamentali riguardo alla qualità ed allo stile dei vini.
Tachis era un uomo da enciclopedia per il suo grande talento enologico, come se ne incontrano pochi…
Era una persona che aveva col vino un rapporto “emozionale”, ma anche un rapporto intellettuale e culturale.
Qual’é secondo lei la cosa migliore che ha fatto in rapporto ai suoi vini?
E’ stato tra i primi a mettere in pratica la fermentazione “malolattica” contribuendo a rendere i nostri vini più armonici ed equilibrati.
Qual’é l’aneddoto o più di uno che ricorda con piacere del vostro legame?
In uno dei nostri viaggi in California ci capitò di assaggiare un vino che lo impressionò per la qualità: quando ci fu detto che era un Barbera, Tachis, piemontese, non si trattenne dall’esclamare che in Piemonte Barbera di tale qualità non lo aveva mai assaggiato.
Tachis era un letterato -enologo… Quanto di poetico c’era in quello che faceva?
Per fare un grande vino occorre anche un po’ di senso artistico e poetico. E Tachis ha fatto grandi vini.
Aveva un cavallo di battaglia? Una sorta di massima di vita? Ha considerato il suo lavoro quasi come una “missione”.
Cosa amava della Toscana e di Bolgheri?
Le sue bellezze paesaggistiche, la sua storia, la sua cultura, le persone, ma anche il nostro straordinario olio di oliva, i nostri prosciutti e il pecorino.
Aveva un pallino legato al vino che si è portato sempre con se senza riuscire a realizzarlo ?
Penso che, come tanti enologi, avesse il sogno di produrre un grande Pinot nero. Anche se ha fatto qualche esperienza positiva in questo campo, forse non è mai riuscito a tradurre pienamente in realtà questo suo “pallino”.
Sapete di cosa andava più fiero?
Certamente dei suoi libri e della sua biblioteca a cui, soprattutto negli ultimi anni, aveva dedicato tempo e passione.
Una delle ultime frasi che l’ha colpita…
Più che una frase mi hanno molto colpito la sua presenza in occasione, tempo fa, di un raduno aziendale per salutare le nostre vecchie cantine di San Casciano, dove aveva lavorato per tanti anni, e che stavamo lasciando per trasferirci nella nuova cantina. Nonostante la malattia volle essere presente e non riuscì a trattenere le lacrime vedendo quei luoghi e le facce dei suoi vecchi dipendenti e collaboratori. (RIPRODUZIONE RISERVATA)