Pupi Avati
Pupi Avati

Pupi Avati“Lucio è scappato via evitando la vecchiaia, l’operazione più intelligente che potesse fare. Il buon Dio gli ha voluto bene. A poche lune dai suoi 70 anni era ancora un ragazzino ed è una fortuna che capita a pochi… Mi ha fregato un’altra volta”. Così Giuseppe Avati, in arte Pupi, maestro del cinema italiano, rompe il ghiaccio. Un leitmotiv, quello dell’amico Lucio Dalla che torna anche nelle prime pagine del suo libro autobiografico, La grande invenzione,  che  presenterà a Cecina Autori sabato 3 luglio (ore 21). E nonostante i 74 suonati Avati non si ferma mai. Proprio a Roma sono iniziate in questi giornile riprese per  la pellicola “Il ragazzo d’oro” con, tra gli altri, Sharon Stone e Riccardo Scamarcio. “Del film però non parlo, perché abbiamo un sacco di problemi – confessa. A livello organizzativo devo ammettere che è una delle cose più difficili della mia vita …”Ma ripartiamo dall’amicizia e dalla differenza  tra passione per la musica, la sua, e il talento vero e proprio quello di Lucio . “Ho provato invidia quando ho capito che aveva un talento soprannaturale – dice Avati – Volevo fare il musicista come lui, suonavamo lo stesso strumento, ed è stato il sogno più coinvolgente di tutta la mia vicenda umana, un sogno che porto ancora dentro ma che purtroppo non sono riuscito a realizzare. Come tutte le cose che non hai avuto, come le storie d’amore, le custodisci nel cuore, per sempre. Il rapporto di Lucio Dalla con la musica ha avuto a che fare con il sacro, con il divino perché in lui improvvisamente si manifestò questo talento, non avevo mai vissuto in presa diretta il palesarsi di un talento in maniera così inconfutabile”.  C’è anche un’altra parte del libro che ha amato e sofferto di più… “quella in cui parlo di mia madre. Immaginare i miei genitori mi ha provocato un dolore piacevole, nel ricostruire la loro vicenda affettiva. In particolare gli anni che abbiamo vissuto assiemefino al momento in cui se ne è andata. E l’immaginare ancora dove si trova, forse in Paradiso, e a come le sarebbe piaciuto che fosse.

Personalmente non ne so niente ma mi sono permesso di raccontarlo lo stesso. Lei, a differenza di me, aveva un’idea chiara del Paradiso come sinonimo di ritrovarsi. Ritrovare le cugine, le amiche di ragazza, il marito che aveva tanto amato e lasciato troppo presto. Per chiunque di noi, credo che questa sia l’idea del Paradiso ideale e che non ci sia niente di più bello, no?” Un cantastorie Pupi Avati, in lui realtà e finzione si incontrano e confondono. “Penso che tutto derivi dalla mia cultura contadina, l’urgenza di raccontare e raccontarsi con qualche lumino in più, taroccando un po’ le storie senza che siano troppo reali. E’ il modo più seducente per sentirsi liberi di narrare ciò che avresti voluto che accadesse… In più sono profondamente egocentrico. Sono la maggiore ossessione di me stesso.  Forse è un lascito, un risarcimento che mi deriva da un complesso di inferiorità che è stato molto penalizzante durante la mia adolescenza. In casa è il rimprovero più frequente che mi viene fatto dai familiari. Credo che vivere con una persona come me sia molto faticoso… Poi però esce la parte autoironica, indugio più volentieri sulle mie cadute e sugli insuccessi. In me non c’è autoindulgenza, non mi sono mai fatto i complimenti da solo come, invece, fanno in molti…” . Bologna, ieri e oggi. Rimpianti?  “Evito il più possibile di andarci, infatti vivo da oltre 40 anni a Roma. Ogni volta che ci poso lo sguardo, una parte dell’attuale mi cancella quella del passato e non lo sopporto.  Mi si impone con la crudezza del presente, che non vuol dire che sia peggio, sarebbe disonesto dire così. Ma è completamente diversa, non più coincidente con la Bologna che mi sento ancora legittimato a ricordare”. C’è un cambiamento che la ferisce in particolare… “Il fatto che i miei concittadini sopportino la deturpazione, il degrado, i murales, per esempio, che sono elementi di arredo urbano che non so apprezzare. E ancora abbandonare certe aree del centro storico nelle mani dei punkabbestia, sono convinto che i bolognesi con cui sono cresciuto non lo avrebbero mai permesso”. 

Forse è colpa dell’individualismo estremo, malattia della nostra epoca. “Non so se sia una definizione corretta ma c’era, soprattutto in Regioni come l’Emilia Romagna, una dignità esemplare nelle persone, anche in quelle più umili.  La ricerca di essere sempre presentabili soprattutto a livello igienico, nel rispetto degli altri. Componenti fondamentali di una società. Gente che gira sporca, malvestita, a piedi scalzi, dormendo sotto i ponti, mi pare un fraintendimento demagogico che non ha giustificazioni, non certo una conquista… Non capisco come i concittadini non si rendano conto di essere caduti in un incubo, un tranello dal quale bisogna svegliarsi…”. Per non parlare della confusione politica che regna in Italia. “Io provengo da un’Italia remota  in cui il partito rappresentava la classe sociale: c’erano i democristiani e i comunisti. Quest’ultimi erano gli operai che giustamente rivendicavano un miglioramento delle loro condizioni di lavoro con spesso forme di distinguo nei confronti delle religioni. E la democrazia cristiana era invece il partito dei borghesi  più conservatori,  legati alla chiesa, alla tradizione. Era una linea di demarcazione chiara, elementare e molto onesta… Pier Paolo Pasolini, mi si permetta,  fu il primo ad intuire un po’ di confusione  ma  adesso abbiamo raggiunto dei paradossi. Non c’è più un partito che rappresenti qualcosa di definito che lo distingua dagli altri, sono posizioni soggettive ma che non si riconoscono in un’ispirazione di massa. Non ci sono identità precise, è tutto molto ambiguo, molto pretestuoso…  e temo che sia un problema che va oltre l’Italia, tutto l’Occidente ne è malato…”. Lei ha provato con l’università a Firenze, cosa pensa della Toscana. “Da bolognese nutro da sempre un complesso di inferiorità nei confronti della Toscana e in particolare di Firenze, bella da mettere in soggezione chiunque…  Ho provato con l’università di Scienze Politiche Cesare Alfieri ma è stato un legame poco felice, ero un pessimo studente. Ho amato invece tantissimo Dante Alighieri, la più forte espressione mai esistita della toscanità e di Firenze. Ho fatto lunghe ricerche per un progetto di cinema-tv, me lo sono cullato per anni. Volevo che Boccaccio raccontasse la sua vita ma non ce l’ho fatta. Rimane sempre qualcosa a metà in quella città, per me… Poi resta viva la grande ammirazione culturale, la seduttività turistica che Firenze detiene è massima, non ha niente a che vedere con il resto d’Italia. E’ inspiegabile come sia riuscita a produrre capolavori tali in tempi brevi. Un periodo ormai lontano però, adesso infatti si è calmata parecchio sotto tutti i punti di vista (ride, ndr)”. Citava Pasolini, lei ha avuto la fortuna di conoscere grandi maestri del cinema. “Non si possono risolvere in una definizione autori come Fellini e Pasolini. Fellini è stato il più grande regista italiano e europeo di tutta la storia del cinema. Pasolini è stato il primo poeta che sia riuscito veramente a portare la poesia al cinema e viceversa. Una trasmigrazione esplicita che non ha precedenti né successori… E’ un unicum.  E poi vorrei chiudere con Mariangela Melato è stata una grande attrice con il dono di restare sempre se stessa senza piegarsi a tecnicismi e regole dei vari mezzi con cui si esprimeva: era la stessa, sempre”.

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